Il testo qui presentato è stato tratto da:
Quaderni di studio THEOSOPHIA - Stampato in Torino, nel mese di Ottobre 1976
Prima edizione italiana, per la Libreria Editrice Teosofica – Torino.
Traduzione dalla Prima edizione Indiana della Theosopy Company del 1965 a cura dei Gruppi Studio LUT di Roma e di Torino.
Abbiamo estratto dalla lunga prefazione, ciò che si riferisce al contenuto filosofico del testo.
Per quanto riguarda Gli Aforismi il testo è stato trascritto integralmente.
GLI AFORISMI DELLO YOGA
di
PATANJALI
Versione e commento di
WILLIAM QUAN JUDGE
PREFAZIONE
Alla prima Edizione Inglese
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Per comprendere il sistema esposto in quest’opera è pure necessario ammettere l’esistenza dell’anima ed in confronto la non importanza del corpo fisico che essa abita. Poichè Patanjali sostiene che la Natura esiste solo per l’interesse dell’anima, nell’esistenza della quale è scontato che lo studente creda. Quindi egli non si prende la pena di provare ciò che ai suoi tempi era ammesso da tutti. E siccome egli afferma che il reale sperimentatore e conoscitore è l’anima e non la mente, ne consegue che quest’ultima, definita un "organo interno" o "principio pensante", benchè più elevata e sottile del corpo, non è altro che uno strumento adoperato dall’anima per acquisire delle esperienze, nella stessa maniera in cui un astronomo adopera il suo telescopio per ottenere delle informazioni sui cieli. Ma la mente è un fattore importantissimo nel conseguimento della concentrazione; questa, d’altra parte, non può essere ottenuta senza la mente, ed osserviamo che perciò nel Libro I Patanjali vi dedica la sua attenzione. Egli dimostra che la mente è, come egli la definisce, "modificata" da tutti gli oggetti o soggetti che le sono presentati o verso i quali è rivolta. Questo può essere ben illustrato dalla citazione di un brano del commentatore: "L’organo interno è paragonato (nel Vedanta Paribbasha) all’acqua, a motivo della sua capacità di adattarsi alla forma di qualsiasi modello. Come le acque di un serbatoio, defluendo attraverso un’apertura, passano per un canale in bacini e prendono una forma rettangolare o un’altra forma, secondo la geometria del recipiente che le contiene, nello stesso modo l’organo interno, manifestandosi, passa per la vista o per un altro canale, per raggiungere un oggetto – per esempio una brocca – e si modifica secondo la forma della brocca o di un altro oggetto. É questa condizione alterata dell’organo interno – o mente – che è chiamata la sua modificazione". Mentre l’organo interno si modella in tal modo sull’oggetto, nello stesso tempo riflette tale oggetto e le sue proprietà, sull’anima. I canali attraverso i quali la mente è obbligata a passare per giungere ad un oggetto o ad un soggetto, sono gli organi della vista, del tatto, del gusto, dell’udito, etc… Così, dunque, attraverso l’udito essa assume la forma dell’idea che può essere data con la parola o, attraverso gli occhi, dalla lettura, prende la forma di ciò che è stato letto, ed ancora, le sensazioni quali il caldo e il freddo la modificano direttamente e indirettamente per associazione e ricordo, e ugualmente avviene nel caso di tutti i sensi e di tutte le sensazioni.
É inoltre risaputo che quest’organo interno, pur avendo un’innata disposizione ad assumere l’una o l’altra modificazione che sono in funzione di un costante ritorno degli oggetti – sia che questi ultimi si presentino direttamente, sia che, per associazione od altrimenti, provengano unicamente dal potere di riproduzione del pensiero – può essere controllato e ridotto ad uno stato di calma assoluta. É proprio questo che Patanjali intende con "impedire le modificazioni". Si vede bene in questo caso, la necessità della teoria che fa dell’anima la reale esperimentatrice e conoscitrice. Poichè se noi fossimo solo la mente o degli schiavi della mente, non potremmo mai raggiungere la reale conoscenza, perchè l’incessante panorama degli oggetti modifica continuamente quest’organo non controllato dall’anima, impedendogli sempre di raggiungere la vera conoscenza. Ma poichè l’Anima è considerata superiore alla mente, essa ha il potere d’impossessarsene e di tenerla sotto controllo, a condizione però che noi utilizziamo lavolontà per aiutarla in questo lavoro. É allora solamente che si realizzano il fine reale ed il vero scopo della mente.
Queste tesi implicano che la volontà non è completamente dipendente dalla mente ma che può esserne separata e, inoltre, che la conoscenza esiste come un’astrazione. La volontà e la mente non sono che dei servitori a disposizione dell’Anima. Ma da così lungo tempo siamo dominati dalla vita materiale e non ammettiamo che il reale conoscitore – e il solo sperimentatore – è l’anima, che questi servitori restano gli usurpatori della sovranità dell’anima. É per questo che nelle antiche opere Indù si afferma che "l’Anima è l’amica del sé ma anche la sua nemica" e che l’uomo deve elevare il sé attraverso il Sé".
In altre parole, c’è una lotta costante tra il sé inferiore ed il Sé Superiore. Le illusioni della materia intraprendono di continuo una guerra senza tregua contro l’Anima, tendendo sempre a trascinare verso il basso i principî interiori i quali, essendo situati in posizione mediana tra il superiore e l’inferiore, sono capaci di raggiungere sia la salvezza che la dannazione.
Negli Aforismi non c’é alcuna allusione alla volontà. Essa pare sottintesa, sia come una realtà ben compresa ed ammessa, sia come uno dei poteri dell’anima stessa di cui non si discute. Numerosi antichi Autori Indù ritengono, e noi siamo disposti ad adottare il loro punto di vista, che la Volontà è un potere spirituale, una funzione o un attributo, costantemente presente in ogni parte dell’Universo. É tuttavia un potere incolore al quale non può essere attribuita nessuna qualità di bene o di male, ma che può essere usato in qualsiasi modo scelto dall’uomo. Quando tale potere è considerato come ciò che nella vita ordinaria si dice "volontà", osserviamo che esso opera unicamente in connessione con il corpo materiale e con la mente, guidato dal desiderio; considerato sotto l’aspetto dell’influenza dell’uomo sulla vita, esso è più misterioso, perché la sua azione va oltre la portata della mente; analizzato nei suoi rapporti con la reincarnazione dell’uomo o con la persistenza dell’Universo manifestato attraverso un Manvantara, esso appare ancora più lontano dalla nostra comprensione e vasto nel suo fine.
Nella vita ordinaria la volontà non è schiava dell’uomo, ma essendo guidata solo dal desiderio, essa fa dell’uomo uno schiavo dei propri desideri. É da questo fatto che ha avuto origine l’antica massima cabalistica "dietro la Volontà sta il Desiderio". I desideri, trascinando di continuo l’uomo in ogni direzione, lo inducono a commettere delle azioni e a generare dei pensieri che sono di natura tale da determinare la causa e la forma di numerose incarnazioni, e lo asservono ad un destino contro il quale egli si ribella e che costantemente distrugge e ricrea il suo corpo mortale. É un errore dire di color che sono conosciuti come uomini di forte volontà, che i loro voleri sono completamente a loro asserviti, poiché essi sono talmente imprigionati nel desiderio, che quest’ultimo, essendo forte, mette in azione la volontà verso la realizzazione degli scopi desiderati. Ogni giorno osserviamo degli uomini, buoni o cattivi, prevalere nei loro diversi campi di azione. Dire che negli uni la volontà è buona e negli altri è cattiva è un errore evidente e dovuto al fatto di scambiare la volontà, lo strumento o la forza, con il desiderio che la mette in azione verso uno scopo buono o cattivo. Ma Patanjali e la sua scuola sapevano bene che si sarebbe potuto scoprire il segreto che permette di dirigere la volontà con una forza dieci volte superiore all’ordinaria, se essi ne avessero indicato il metodo, e che degli uomini malvagi dai forti desideri e privi di coscienza, l’avrebbero utilizzata impunemente contro i loro simili; essi sapevano anche che perfino degli studenti sinceri possono essere sviati dalla spiritualità se rimangono abbagliati dai risultati stupefacenti prodotti da un addestramento soltanto della volontà. Così Patanjali, per queste ed altre ragioni, conservò il silenzio sull’argomento.
Il suo sistema postula che Ishwara, lo spirito nell’uomo, non è toccato dalle afflizioni, dalle azioni, dai frutti delle azioni o dai desideri, e che quando un fermo atteggiamento è assunto allo scopo di raggiungere l’unione con lo spirito attraverso la concentrazione, Esso viene in aiuto del sé inferiore e lo eleva gradualmente a dei piani superiori. In questo processo la Volontà acquisisce gradualmente una tendenza sempre più forte ad agire secondo una linea differente da quella tracciata dalla passione o dal desiderio. Così essa si libera dal dominio del desiderio e finisce per assoggettare lamente stessa. Ma fino a quando la perfesione in tale pratica non è raggiunta, la volontà, continua ad agire secondo il desiderio, soltanto che quest’ultimo si è trasformato in aspirazione per cose più elevate e lontane da quelle della vita materiale. Il Libro III ha loscopo di definire la natura della condizione di perfezione, che qui è detta Isolamento.
L’Isolamento dell’Anima in questa filosofia non significa che un uomo si separa dai suoi simili diventando freddo e duro, ma significa unicamente che l’Anima è separata o liberata dalla schiavitù della materia e del desiderio, essendo a questo punto capace di agire in vista di compiere il fine della Natura e dell’Anima Universale che include le anime di tutti gli uomini. Questo fine è chiaramente indicato negli Aforismi. Nuemrosi lettori e pensatori superficiali, per non parlare di quelli che si oppongono alla filosofia Indù, non mancano di affermare che gli Jivanmukta o Adepti, si separano da ogni forma divita umana, da ogni attività e da ogni partecipazione delle faccende collettive, isolandosi su delle inaccessibili montagne dove nessun grido può raggiungere le loro orecchie. Una tale accusa è direttamente in antitesi ai principî della filosofia che prescrive il metodo ed i mezzi per raggiungere una simile condizione. Questi Esseri certamente sono inaccessibili all’osservazione umana ordinaria ma, come chiaramente espone questa stessa filosofia, hanno l’intera natura come obiettivo, e questo includerà tutti gli uomini viventi. Può sembrare che non si interessino ai progressi od ai miglioramenti transitori, ma essi lavorano dietro le scene dell’autentica illuminazione fino a quando i tempi e gli uomini saranno maturi per sopportare la loro apparizione in forma mortale.
Il termine "conoscenza" come è qui usato, ha un significato più vasto di quello che abitualmente gli diamo. Esso umplica una completa identificazione della mente, per un certo periodo di tempo, con un oggetto o soggetto qualunque sui quali può essere diretta. La scienza e la metafisica moderna non ammettono che la mente possa conoscere oltre i confini di certi metodi prestabiliti e di limitate distanze, e nella maggior parte dei suoi rami l’esistenza dell’anima viene negata o ignorata. Non è ad esempio concepibile che si possano conoscere i costituenti di un blocco di pietra senza mezzi meccanici o chimici adoperati direttamente sull’oggetto, e che si possa diventare coscienti dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, a meno che essa non li esprima con parole od in azioni. Quando i metafisici trattano dell’anima, restano nel vago e sembrano temere l’approccio scientifico poiché non è possibile sottoporre l’anima ad un’analisi chimica, nè pesarne le parti su di una bilancia. L’Anima e la Mente vengono ridotti alla condizione di strumenti limitati che registrano certi fatti fisici posti alla loro portata attraverso dei mezzi meccanici. In un altro campo,m come ad esempio in quello della ricerca etnologica, si ritiene che si possa ottenere questa o quell’altra informazione su certe razze di uomini, per mezzo dell’ossevazione fatta con l’aiuto della vista, del tatto, del gusto e dell’udito: inquesto caso la mente e l’anima sono ancora dei semplici registratori. Ma il sitema di Patanjali sostiene che il praticante che ha raggiunto certi stati, può dirigere la sua mente su di un blocco di pietra collocato lontano o vicino, su di un uomo o su di una classe di uomini e che può, per mezzo della concentrazione, conoscere tutte le qualità intrinseche di questi oggetti, come pure le loro caratteristiche occasionali, e sapere tutto attorno al soggetto. Così, ad esempio, per quanto concerne gli indigeni dell’Isola di Pasqua, l’asceta può conoscere non solo quello che è visibile attraverso i sensi o che può essere conosciuto attraverso una lunga osservazione o ciò che è stato registrato, ma anche le qualità profonde e la linea esatta di discendenza e di evoluzione del particolare tipo umano esaminato. La scienza moderna non può sapere niente degli indigeni dell’Isola di Pasqua e non fa che delle vaghe supposizioni sulla loro origine; essa non può nemmeno dirci con certezza ciò che è e da dove è venuto un popolo come quello Irlandese, che ha sotto gli occhi da così lungo tempo. Nel caso del praticante dello Yoga egli è capace, attraverso il potere della concentrazione, di identificarsi completamente con la cosa considerata e di compiere così, interiormente, l’esperienza diretta di tutti i fenomeni e di tutte le qualità manifestate dall’oggetto.
Perchè sia possibile accettare tutto ciò che precede, è necessario ammettere l’esistenza, l’utilizzazione e la funzione di un mezzo eterico che compenetra tutte le cose, chiamato Luce Astrale o Akasa dagli Indù. La distribuzione universale di questo mezzo è un fatto della natura che si trova metafisicamente espresso nei termini "Fratellanza Universale" e "Identità Spirituale". É in questo mezzo, con il suo aiuto, e attraverso la sua utilizzazione, che le caratteristiche ed i movimenti di tutti gli oggetti sono universalmente conoscibili. Esso è, per così dire, la superficie sensibile sulla quale sono incise tutte le azioni umane, tutti gli oggetti, i pensieri e le situazioni. L’indigeno dell’Isola di Pasqua è il residuo di un ceppo che ha lasciato la sua impronta in questa Luce Astrale, e porta con sé la traccia indelebile della storia della propria razza. L’asceta, durante la concentrazione, fissa la propria attenzione su questa impronta, e poi legge la registrazione perduta per la scienza. Ogni pensiero di Herbert Spencer, di un Mill, di un Bain o di un Huxley, è collegato, nella Luce Astrale, al rispettivo sistema filosofico da essi formulato, e tutto ciò che l’asceta deve fare consiste nel trovare un semplice punto di partenza connesso con uno di questi pensieri e di leggere poi nella luce astrale, tutto ciò che essi hanno pensato. Ma Patanjali e la sua scuola, considerano tali prodigi come relativi alla materia e non allo spirito, per quanto essi sembrare piuttosto assurdi a delle orecchie occidentali o, tutto al più, se si concede loro qualche credito, appaiano come dei prodigi provenienti dallo spirito.
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WILLIAM QUAN JUDGE
New York, 1889
GLI AFORISMI DELLO YOGA
di
PATANJALI
LIBRO I
(1)
La particella sanscrita atha che è stata tradotta con "in verità", annunzia al discepolo che un argomento ben definito sta per essere esposto, richiede la sua attenzione e serve anche da benedizione. Monier Williams afferma che questa è "un particella di buon auspicio e di introduzione ma che spesso è difficilmente esprimibile nelle nostre lingue occidentali."
In altre parole, la mancanza di concentrazione del pensiero è dovuta al fatto che la mente, chiamata qui "il principio pensante", è soggetta a delle costanti modificazioni a causa del suo disperdersi su di una molteplicità di soggetti. Così la "concentrazione" equivale alla correzione della tendenza alla dispersione ed al conseguimento di ciò che gli Indù chiamano "il punto unico"
(2), o il potere di costringere la mente, in qualunque momento, a considerare un solo soggetto di pensiero, escludendone ogni altro. É su questo Aforisma che si impernia tutto il metodo del sistema. La ragione dell’assenza continua della concentrazione è che la mente è modificata da tutti i soggetti ed oggetti che le si presentano; essa è, per così dire, trasformata in quel soggetto od oggetto. La mente perciò, non è il potere supremo o più elevato; essa non è che una funzione, uno strumentocon il quale l’anima lavora, percepisce le cose e compie delle esperienze. Neppure il cervello deve essere confuso con la mente, non essendo a sua volta che uno strumento di quest’ultima. Ne consegue che la mente ha un suo proprio piano, diverso da quello dell’anima e del cervello, per cui si dovrebbe imparare a far uso della volontà che è anch’essa un potere distinto dalla mente e dal cervello, in maniera tale da usare la mente come un nostro servitore ogniqualvolta e per quanto tempo lo desideriamo, per considerare qualunque cosa abbiamo scelto, invece di permetterle di vagare da un soggetto all’altro, secondo le loro sollecitazioni.Questo si riferisce alla concentrazione perfetta che è lo stato in cui, dopo che sono state impedite le modificazioni di cui si parla nell’Aforisma 2, l’anima passa, ritrovandosi in una condizione ove non è più soggetta all’alterazione o alle impressioni prodotte da un soggetto qualsiasi. L’ "anima" di cui si parla, non è Atma, lo spirito.
Questo si riferisce alla condizione dell’anima nella vita ordinaria quando non è praticata la concentrazione e significa che allorquando la mente, l’organo interiore, è influenzata o modificata attraverso i sensi dalla forma di quanche oggetto, anche l’anima – che percepisce l’oggetto attraverso il proprio organo, la mente – si trova, per così dire, mutata in quella stessa forma, così come una statua di marmo, bianca come la neve, osservata sotto una luce cremisi, appare di questo colore allo spettatore e così rimane per gli organi visivi, durante tutto il tempo che questa luce colorata la illumina.
Esempi sono i concetti: "le corna della lepre" e "la testa di Rahu". Uno che senta l’espressione "la testa di Rahu", immagina naturalmente che ci sia un Rahu che possegga questa testa, mentre questo mitico mostro che, si dice, causi le eclissi ingoiando il sole, è formato solo da una testa ed è privo di corpo. E, sebbene si usi di frequente l’espressione "le corna della lepre", è arcinoto che non esiste nulla di simile in natura. Nella stessa maniera molte persone continuano a parlare del "levare" e del "calare" del sole, benchè esse si attengano alla teoria contraria.
Questo significa che per ottenere la concentrazione dobbiamo continuamente compiere degli sforzi per acquisire quel controllo sulla mente che ci permetterà in un momento qualsiasi, quando ciò ci sembri necessario, di ridurla ad una condizione di immobilità. O di aoolicarla su di un punto unico escludendo tutto il resto.
Da ciò, lo studente non deve concludere che non potrà mai acquisire la concentrazione se non le avrà dedicato ogni istante della sua vita. Le parole "senza interruzione" si applicano solo alla durata di tempo ch è stato riservato per questa pratica.
Ecco la realizzazione di una condizione di esistenza nella quale la coscienza non è influenzata dalle passioni, dai desideri e dalle ambizioni, che contribuiscono a modificare la mente.
Il genere di meditazione di cui si tratta consiste in una riflessione nella quale la natura del soggetto da considerare è ben conosciuta, senza dubbi né errori, e si traduce in una conoscenza ditinta che esclude tutte le altremodificazioni della mente, tranne il soggetto che è stato scelto per tale riflessione.
(1) La divisione Argomentativa di questa meditazione è una riflessione su di un soggetto argomentando sulla sua natura paragonata con qualcos’altro, come ad esempio il problema se la mente è il prodotto della materia o se precede la materia.
(2) La divisione Deliberativa consiste in una riflessione che ha per fine la scoperta dell’origine e del campo di azione dei sensi più sottili e della mente.
(3) La condizione di Beatitudine è quella in cui si riflette sui più alti poteri della mente e sulla verità astratta.
(4) La divisione relativa all’Egoè quella in cui la meditazione giunge ad una tale profondità che tutti i soggetti od oggetti inferiori sono persi di vista e non resta nient’altro che la percezione cosciente di sé, il quale diventa allora un mezzo per pervenire a dei gradi più alti di meditazione.
Il risultato del raggiungimento del quarto grado, chiamato percezione Egoica, è la chiara consapevolezza che l’oggetto o il soggetto con cui la meditazione era cominciata è scomparso e che è rimasta solo la coscienza di sé; ma questa coscienza di sé non include affatto la coscienza dell’Assoluto o dell’Anima Suprema.
Il commentatore fa qui rilevare che "in colui che possiede la Fede sorge l’Energia o la costanza nella meditazione. Così perseverando, scaturisce la memoria dei soggetti passati e la sua mente viene assorbita nella considerazione attenta generata dal ricordo del soggetto e colui la cui mente è immersa nella meditazione giunge ad un totale discrnimento della cosa che considera".
É stato detto che questa profonda devozione è uno dei mezzi fondamentali per ottenere la meditazione astratta ed i suoi risultati. "Ishwara" è lo Spirito nel corpo.
OM è la prima lettera dell’alfabeto sanscrito. La sua pronunzia comprende tre suoni, di cui un O lunga (Au), una U breve e la "pausa" ovvero la consonante labiale M. A questa triplice natura si ricollega unprofondo significato mistico e simbolico. Essa esprime tre qualità distinte perquanto unite: Brahma, Vishnu e Siva, ovvero Creazione, Preservazione e Distruzione. Considerata nell’insieme essa implica "l’Universo". Nella sua applicazione all’uomo au si riferisce alla scintilla dello Spirito Divino che si trova nell’umanità; u al corpo attraverso il quale lo Spirito si manifesta; m alla morte del corpo ossia alla scomposizione nei suoi elementi materiali. In rapporto ai cicli che interessano ogni sistema planetario, essa implica in primo luogo lo Spirito, rappresentato da au, come base dei mondi manifestati, poi il corpo o materia manifestata, attraverso cui opera lo Spirito, rappresentata dalla u; ed infine, rappresentato dalla m, "l’arresto o il ritornodel suono alla sua sorgente", il Pralaya o la Dissoluzione dei mondi. Nell’occultismo pratico questa parola è messa in rapporto con il Suono o con la Vibrazione e con tutte le proprietà e gli effetti che ne derivano, essendo questo uno dei più grandi poteri della natura. Se si usa questa parola nella disciplina pratica, la sua pronunzia, a mezzo dei polmoni e della gola, produce un effetto particolare sul corpo umano. Nell’Aforisma 28 questo nome è impiegato nel suo significato più alto il quale include necessariamente tutti gli altri. La pronunzia della parola Om in tutte le pratiche della disciplina, ha un rapporto potenziale con la separazione cosciente dell’anima dal corpo.
Qui s’intende ogni verità che si è accettata e che si è riconosciuta come tale.
Le principali occasioni di distrazione della mente sono la Cupidigia e l’Avversione. Questo aforisma non vuole intendere che la virtù ed il vizio dovrebbero essere considerati dallo studente con indifferenza, ma che egli non dovrebbe fissare con piacere la propria mente sulla felicità o sulla virtù, né con avversione sulla pena o sul vizio. In altri termini, egli dovrebbe considerare tutti con uno spirito imparziale, e la pratica della Benevolenza, della Compassione e della Compiacenza conduce ad uno stato gioioso della mente che tende a rafforzarla e a renderla stabile.
Questi due aforismi (42 e 43) descrivono il primo ed il secondo stadio della meditazione, in cui la mente si concentra su oggetti di natura grossolana o materiale. L’aforisma che segue si riferisce allo stato in cui oggetti meno grossolani o più sottili sono scelti per la meditazione contemplativa.
La "meditazione con un proprio seme" è quel genere di meditazione in cui è ancora presente dinanzi alla mente un oggetto ben definito su cui meditare.
Si ritiene che esistano due correnti principali di pensiero: (a) quella che dipende dalla suggestione provocata dalle parole di un altro, o da un’impressione sui sensi o sulla mente od ancora da associazioni d’idee. (b) Quella che dipende interamente da se stessa e che riproduce, traendoloda sé, lo stesso pensiero di prima. L’ottenimento della seconda specie di pensiero ha per effetto l’inibizione di tutte le altre correnti di pensiero, perchè essa è di una natura tale da respingere od espellere dalla mente ogni altro tipo di pensiero. Come viene mostrato dall’Aforisma 48, lo stato mentale chiamato "Non—Argomentativo" è assolutamente libero da ogni errore poiché esso non ha niente a che fare con la testimonianza e con la deduzione, essendo la conoscenza stessa; ne consegue che è dalla sua stessa natura intrinseca che ha origine l’inibizione di ogni altra corrente di pensiero.
La "meditazione senza seme" è quella in cui le potenzialità della mente sono state risvegliate ad un punto tale che l’oggetto scelto per la meditazione è scomparso dal piano della mente e non vi è più alcuna traccia di esso, mentre il pensiero continua il proprio sviluppo su di un piano superiore.
Fine del Libro Primo
LIBRO II
Mezzi della Concentrazione
Ciò che s’intende qui per "mortificazione" è la pratica insegnata in altre opere come nel Dharma Shastra, che comprende le penitenze ed i digiuni; la "recitazione a bassa voce" è la ripetizione sussurrata di formule tradizionali, preceduta dal nome mistico dell’Essenza Suprema indicato nell’Aforisma 27 del Libro I; l’"abbandono all’Anima Suprema" consiste nell’affidare all’Anima Divina o Anima Suprema, tutte le proprie azioni, senza interesse per i loro risultati.
Vale a dire, confondere l’anima che realmente vede con lo strumento che essa impiega per questa funzione, cioé con la mente, o – ad un grado ancor più alto di errore – con gli organi di senso che sono a loro volta gli strumenti della mente; come ad esempio, quando una persona ignorante pensa che è il suo occhio che vede, mentre in realtà è la sua mente che usa l’occhio come strumento di visione.
C’è nello spirito una tendenza naturale, durante tutto un Manvantara, a manifestarsi aul piano materiale, sul quale ed attraverao il quale solamente, le monadi spirituali possono completare il loro sviluppo; e questa tendenza, agendo attraverso la basae fisica comune a tutti gli esseri senzienti, è estremamente potente e si continua attraverso tutte le incarnazioni, aiutando di fatto la loro genesi e rinnovellandosi ad ognuna di esse.
Il passato non può essere cambiato o modificato; ciò che fa parte delle esperienze presenti non può e non dovrebbe essere evitato, ma ciò che invece dovrebbe essere evitato sono le previsioni fonte di angoscia od i timori del futuro ed ogni azione od impulso capaci di causare sofferenza, nel presente o nell’avvenire a noi stessi o agli altri.
Il "molteplice" può essere rappresentato dagli elementi grossolani e dagli organi dei sensi; "l’unitario", dagli elementi sottili e dalla mente; "ciò che può essere scomposto una volta sola", dall’intelletto che può risolversi nella materia indifferenziata e non oltre; e "ciò che non può essere ridotto", dalla materia indivisibile.
Il Commentatore aggiunge: "La Natura nella sua attività energetica non opera in tal modo per qualche scopo proprio, ma con un piano che potrebbe essere espresso forse con le parole ‘compiere l’esperienza dell’Anima’".
Qunato è espresso in questo Aforisma e nei due precedenti, significa che l’unione dell’anima e del corpo, durante ripetute reincarnazioni, è dovuta alla mancanza, in tale condizione, di una conoscenza discriminativa della natura dell’anima e dei suoi aspetti collaterali, e che, quando questa conoscccenza discriminativa è stata raggiunta, l’unione, dovuta all’assenza di un tale discernimento, cessa spontaneamente.
L’importanza di ciò – fra l’altro – è che l’uomo che ha raggiunto la perfezione dello sviluppo spirituale conserva la propria continuità di coscienza nel corpo, al momento di lasciarlo e quando passa nelle sfere superiori. Parimenti, questa continuità di coscienza persiste immutata quando egli lascia le sfere superiori per ritornare nel priprio corpo e riprendere le sue attività sul piano materiale.
(5)Questo non vuol dire che lo studente che pratica solo la continenza e trascura le altre pratiche indicate, acquisterà forza. Tutte le parti del sistema devono esser perseguite di pari passo sui piani mentale, morale e fisico.
Qui, "bramosia", non si riferisce solo al desiderio degli oggetti, ma anche al desiderio di gradevoli condizioni terrene, o anche all’esistenza terrena stessa.
Attraverso delle invocazioni correttamente pronunciate – a cui si fa riferimento con la significativa espressione "recitazione sussurrata" – i poteri superiori della natura, ordinariamente invisibili all’uomo, sono costretti a rivelarsi alla visione dello Yogi; e, per il fatto stesso che tutti i poteri della natura non possono essere evocaati contemporaneamente, la mente deve essere diretta verso una forza od un potere particolare della natura da cui l’uso della frase "con la propria deità preferita".
Per rendere ciò più chiaro alla mente dello studente, è qui necessario rilevare che le "posizioni" decritte in vari sistemi di "Yoga", non sono assolutamente essenziali al successo perseguito nella pratica della concentrazione e al raggiungimento dei suoi risultati ultimi. Tutte le "posizioni" descritte dagli autori Indù sono basate su di un’accurata conoscenza degli effetti fisiologici che esse inducono, ma, ai nostri giorni, esse non sono possibili che per quegli Indù che vi sono abituati fin dalla loro tenera infanzia.
Con "le coppie degli opposti" si fa riferimento alla classificazione a coppie delle opposte qualità, condizioni e stati dell’essere, adottata in tutti i sistemi filosofici e metafisici Indù, che sono la sorgente eterna del piacere o del dolore nell’esistenza terrena, nello stesso modo in cui lo sono freddo e caldo, fame e sazietà, giorno e notte, povertà e ricchezza, libertà e dispotismo.
Gli Aforismi 49—50—51 alludono alla regolazione del respiro come una parte degli esercizi fisici menzionati nella nota dell’Aforisma 46, la conoscenza delle cui regole e prescrizioni, da parte dello studente, è sottointesa da Patanjali. L’Aforisma 50 si riferisce unicamente alla regolazione dei diversi periodi, del grado di intensità e del numero di alternanze delle tre fasi respiratorie: espirazione, inspirazione e ritenzione del respiro. Ma l’Aforisma 51 allude ad un’altra regolazione del respiro è cioé a quella governata dalla mente in modo da controllare la direzione del respiro e la sua conseguente influenza su alcuni centri nervosi di percezione situati all’interno del corpo, al fine di produrre degli effetti fisiologici, seguiti da effetti psichici.
Fine del Libro Secondo
LIBRO III
Ciò è detto Dharana.
Questo è chiamato Dhyana.
In Occidente non abbiamo alcun termine che traduca esattamente Sanyama. I traduttori hanno usato la parola restrizione, limitazione, ma essa non è né appropriata né esatta, benché sia una traduzione corretta. Quando un Indù dice che un asceta pratica la restrizione su di un oggetto qualsiasi, secondo questo sistema, intende dire che egli sta eseguendo il Sanyama, mentre nelle nostre lingue può significare che egli priva se stesso di qualcosa o di un’azione particolare e questo non è il senso di Sanyama. Noi abbiamo mantenuto la terminologia del testo ma l’idea è forse resa meglio con "perfetta concentrazione".
Questo "potere di discernimento" è una facoltà ben definita che solo tale pratica sviluppa e non è posseduta dalle persone ordinarie che non hanno coltivato la concentrazione.
(Vedere nota all’Aforisma 2, Libro I). Lo studente deve ora conoscere che, dopo aver superato le difficoltà e gli ostacoli descritti nel Libri precedenti, ci sono altre modificazioni di carattere sottile di cui soffre la mente, che devono essere dominate per mezzo del Sanyama. Quando egli ha ottenuto questo stato, tali difficoltà si rivelano a lui da se stesse.
(Vedere Aforisma 17, Libro I).
É molto difficile rendere questo Aforisma nella nostra lingua. Le tre parole qui tradotte come "proprietà caratteristica, qualità distintiva od uso specifico e possibili cambiamenti nella utilizzazione" sono, nell’originale, Dharma, Lakshana ed Avastha e possono essere così spiegate: Dharma è , per così dire, l’argilla di cui una giara è formata; Lakshana, l’idea di una tale giara così composta e Avastha, la consapevolezza che la giara si modifica ad ogni istante, poiché essa invecchia od è, in varia guisa, influenzata.
La terza classe summenzionata si riferisce ad un principio fondamentale di questa filosofia che sostiene che tutti gli oggetti "possono risolversi e si risolveranno in ultimo nella natura" od in un’unica sostanza fondamentale; ne consegue, ad esempio, che l’oro può essere considerato alla stregua di un elemento qualunque non differente dalla terra, ossia, in ultima analisi, che non può essere separato da essa.
Riandate all’Aforisma 4 ove "Sanyama" è spiegato come l’uso o la pratica dell’attenzione, della contemplazione e della meditazione su di un singolo oggetto.
Ecco qui un’altra grande differenza fra questa filosofia e la scienza moderna. Le scuole di oggi ritengono che se un occhio sano si trova sull’asse dei raggi luminosi riflessi da un oggetto – quale un corpo umano – quest’ultimo sarà visto, non potendo nessuna azione della mente della persona osservata inibire le funzioni della retina e dei nervi ottici dell’osservatore. Ma secondo gli antichi Indù, tutte le cose sono viste a causa di quella differenziazione del Satwa – una delle tre grandi qualità che compongono tutte le cose – che si manifesta come luminosità, operando in unione con l’occhio, il quale è anch’esso una manifestazione di Satwa, in un altro suo aspetto. Entrambi devono trovarsi in collegamento; se la luminosità è assente o non è in rapporto con l’occhio dell’osservatore, l’oggetto non appare. E, poiché la natura della luminosità si trova completamente sotto il controllo dell’asceta, egli può, attraverso il procedimento citato, arrestarla e sottrarre all’occhio altrui un elemento essenziale per la visione di qualsiasi oggetto.
L’antico commentatore differisce dagli altri su questo aforisma, in quanto sostiene che esso fa parte del testo originale, mentre gli altri sostengono che si tratta di uns interpolazione.
Il Karma che deriva da azioni di entrambe le specie nella presente e nelle passate incarnazioni, produce ed influenza i nostri attuali corpi, in cui stiamo compiendo azioni similari. L’asceta, attraverso una ferma e costante contemplazione di tutte le azioni compiute in questa e nelle passate incarnazioni, (vedere Aforisma 18) è capace di conoscere completamente tutte le conseguenze delle azioni commesse e perciò ha il potere di calcolare correttamente l’esatta durata della propria vita.
"Brahmandra" significa qui il grande sistema da alcuni chiamato "universo", in cui questo mondo si trova.
Vengono qui presentati due concetti che hanno alcuna corrispondenza nel pensiero moderno. Il primo è l’esistenza di una luce nella testa; l’altro è quello di esseri divini che possono essere visti da coloro che si concentrano proprio su questa "luce nella testa". Si ritiene che un centro nervoso o corrente psichica chiamata Brahmarandhra—nadi emerga attraverso il cervello nei pressi della sommità del capo. In questo punto, più che in ogni altra parte del corpo, si concentra il principio luminoso della natura che è chiamato jyotis – la luce nella testa. E, poiché ogni risultato viene ottenuto attraverso l’uso di mezzi appropriati, la visione degli esseri divini può essere ottenuta mediante la concentrazione su quella parte del corpo che più strettamente è connessa con questi. Questo punto – l’estremità del Brahmarandhra—nadi – è anche il punto in cui si realizza il collegamentofra l’uomo e le forze solari.
Hridaya
è il cuore. Vi è un certo disaccordo tra i mistici riguardo al fatto che si tratti del cuore quale muscolo o di qualche centro nervoso con cui è collegato, come nel caso dell’analoga istruzione della concentrazione sull’ombelico, mentre, in realtà, s’intende il territorio nervoso chiamato plesso solare.Riguardo alla "pratica indicata", vedere Aforisma 36—37.
Poiché questa filosofia sostiene che la mente, in quanto non è un prodotto del cervello, entra nel corpo attraverso una certa via e si collega con questo in una maniera particolare, quest’aforisma afferma anche che quando l’asceta acquisisce la conoscenza del procedimento esatto di congiunzione fra la mente ed il corpo, egli può collegare la propria mente con qualunque altro corpo e trasferire così il proprio potere di utilizzare gli organi della forma occupata, per sperimentare gli effetti generali dell’attività dei sensi.
Udana
è il nome daato ad una delle cosidetta "atmosfere vitali". Queste, in realtà, sono certe funzioni nervose per le quali la nostra fisiologia non ha alcun nome e ciascuna delle quali assolve ad un suo preciso compito. Si può dire che conoscendole e sapendole dirigere, qualunque uomo diviene capace di modificare a volontà la polarità del proprio corpo fisico. Le stesse osservasioni si applicano anche all’aforisma seguente.(Questo effetto è stato visto dall’interprete
(10) in più occasioni, quando era in compagnia di una persona che aveva acquisito questo potere. La persona appariva come se possedesse una luminosità sotto la pelle).La parola Akasa è stata tradotta sia come "etere" che come "luce astrale". In questo aforisma è impiegata nel primo senso. Si deve ricordare che il suono è la proprietà distintiva di questo elemento.
(Vedere la nota sull’Isolamento nel Libro IV).
Qui Patanjali parla delle divisioni ultime del tempo, che non sono cioé suscettibili di un ulteriore frazionamento, e dell’ordine in cui esse si precedono e si succedono. Egli afferma che si può raggiungere una percezione di questi periodi minimi; di conseguenza, colui che giunge ad una tale discriminazione, si eleva ad una percezione superiore e più ampia di certi principî della natura che sono così celati che la filosofia moderna non sospetta neppure la loro esistenza. Sappiamo come tutti noi possiamo distinguere dei periodi temporali quali i giorni e le ore. Vi sono anche molti individui, matematici nati, che sono capaci di percepire la successione dei minuti e che possono dire esattamente, senza orologio, quanti ne sono trascorsi in un certo intervallo. I minuti così percepiti da questi matematici prodigiosi, non sono tuttavia le divisioni ultime del tempo alle quali si riferisce l’aforisma, poiché, essi stessi, sono composti da queste divisioni ultime. Nessuna regola può essere data per una tale concentrazione poiché essa è così avanzata sulla via del progresso che l’asceta trova da se stesso le regole, dopo aver dominato tutti i processi interiori.
In questo aforisma e nel seguente, l’asceta in uqestione è diventato un Jivanmukta e non è più soggetto alla reincarnazione. Egli, tuttavia, può vivere ancora sulla terra ma non è più in alcun modo aottomesso al suo corpo, essendo in ogni istante la sua anima perfettamente libera. E tale è, si ritiene, la condizione di quegli esseri che nella letteratura teosofica sono chiamati Adepti, Mahatma o Maestri.
Fine del Libro Terzo
LIBRO IV
La Natura Essenziale dell’Isolamento.
La sola causa delle perfezioni permanenti è la meditazione praticata nelle incarnazioni precedenti quella in cui tali pefezioni compaiono, perché la perfezione mediante nascita, così come il potere di volare degli uccelli, non è permanente, come pure sono transitorie quelle che provengono da incantesimi, filtri magici e simili. Ma, poiché la meditazione raggiunge l’essere interiore, influenza ogni incarnazione. Ciò porta anche alla concluzione che la meditazione sul male avrà per risultato ultimo la perfezione nel male.
Ciò allude alla possibilità – ammessa dagli Indù – che un essere umano si trasformi in uno dei Deva o degli esseri celesti, per mezzo dell’energia prodotta dalla disciplina ascetica e dalla meditazione.
Questo Aforisma intende spiegare meglio l’Aforima 2 rivelando che, in una determinata incarnazione, alcune pretiche (come ad esempio quelle esposte in precedenza) hanno il potere di portare ad esaurimento gli effetti non ancora manifestatisi del Karma passato di un individuo, rendendoli ora attivi nei suoi confronti, mentre se queste pratiche non fossero state eseguite, il risultato della meditazione passata avrebbe potuto essere rimandato ad un’altra vita.
Questo Aforisma si riferisce a tutte le classi di uomini e non ai corpi assunti dall’asceta, e bisogna sempre ricordare che la dottrina filosofica di Patanjali afferma che ogni vita lascia nell’Ego dei depositi mentali che formeranno la base da cui procederanno le vicissitudini delle future incarnazioni.
Le tre specie di opere cui si allude sono: (1) Quella pura nell’azione e nel movente; (2) quella tenebrosa, come nel caso delle azioni degli esseri infernali; (3) quella propria all’umanità ordinaria che è pura e tenebrosa ad un tempo. La quarta specie è quella propria dell’asceta.
Quanto detto ha lo scopo di eliminare un dubbio causato dall’Aforisma 8, intendendo dimostrare che la memoria non è dovuta alla semplice sostanza cerebrale, ma che essa è posseduta dall’Ego che si reincarna che trattiene allo stato latente tutti i depositi mentali, ciascuno dei quali potrà manifestarsi solo quando la costituzione corporale e l’ambiente idonei, saranno disponibili.
Nell’Edizione Indiana si legge che i depositi persistono a causa della "felicità". Ma poiché questa parola è adoperata in un senso particolare, qui non la usiamo. Tutti i depositi mentali aono il risultato di un desiderio di godimento, sia che si tratti del desiderio di evitare nella prossima vita talune sofferenze sopportate in questa, sia che si tratti del sentimento concreto espresso nel desiderio "possa questo o quel piacere essere eternamente mio". Questo è ciò che viene chiamato una "felicità". E la parola "eterno" ha pure un significato particolare, intendendo riferirsi unicament e a quel periodo compreso in un "giorno di Brahma", che dura migliaia di età.
Quest’Aforisma integra il precedente e intende mostrare che, sebbene i depositi mentali sussistono durante una "eternità" se sono lasciati a se stessi – essendo sempre ingrossati da nuove esperienze e da desideri simili – possono tuttavia essere rimissi eliminando le cause che li avevano prodotti.
Le "tre qualità" sono: Satwa, Raja, Tamo, ossia Verità, Attività ed Oscurità. La Verità corrisponde alla luce ed alla gioia; l’Attività alla passione, l’Oscurità al male, all’inazione, all’indifferenza, all’apatia ed alla morte. Tutti gli oggetti manifestati sono composti da queste tre qualità.
Ne consegue che Ishwara, il "testimone e lo spettatore", riamne impassibile, attraverso tutti i cambiamenti ai quali la mente e l’anima sono sottoposti. Ishwara è l’anima spirituale.
L’autoconoscenza di cui si parla è l’illuminazione interiore a cui aspirano tutti i mistici, e non semplicemente una conoscenza di sé nel senso ordinario.
La mente è solo una funzione, uno strumento o mezzo attraverso cui l’anima acquisisce esperienze e conoscenza. In ciascuna incarnazione la mente è, per così dire, nuova. Essa è una parte dell’apparato fornito all’anima, attraverso innumerevoli vite, per ottenere esperienza e raccogliere il frutto delle opere compiute. La nozione che la mente sia ad un tempo il conoscitore e lo sperimentatore è falsa e deve essere rimossa prima che l’anima possa raggiungere l’emancipazione. Perciò, è stato detto che la mente opera o esiste per realizzare la salvezza dell’anima e non che l’anima agisce nell’interesse della mente. Qunado ciò è pienamente compreso, la natura permanente dell’anima è conosciuta direttamente, e tutti i mali provenienti da false idee cominciano a scomparire.
Il commentatore apiega che quando l’asceta ha raggiunto il punto descritto nell’Aforisma 25, se egli rivolge la concentrazione verso la prevenzione di tutti gli altri pensieri e non desidera conseguire i poteri che potrebbe ottenere a volontà, raggiunge uno stato di meditazione più avanzato che è chiamato "nuvola di virtù" perché è di natura tale da fornire, per così dire, la pioggia spirituale che permetterà di realizzare lo scopo principale dell’anima – la completa emancipazione. E questo Aforisma riprende l’avvertimento che prima di raggiungere lo scopo finale, il desiderio dei risultati è un ostacolo.
Questo è un passo ulteriore rispetto all’Aforisma 53, Libro III, dove era detto che dalla conoscenza delle divisioni ultime del tempo risulta una percezione dei principî più sottili e segreti dell’universo. Qui, avendo l’asceta raggiunto l’Isolamento, vede perfino al di là di queste divisioni ultime ed esse, quantunque possano turbare chi non ha raggiunto questo stadio, sono identiche per l’asceta perché egli se ne è reso padrone. È estremamente difficile interpretare questo aforisma; e nell’originale si legge che "L’ordine è la controparte del momento". Per esprimere ciò in altro modo, si può dire che nel tipo di meditazione di cui si tratta nell’Aforisma 53 del Libro III, si sviluppa nella mente una conoscenza capace di calcolare e che, durante questa, il contemplante che non è ancora completamente padrone delle divisioni del tempo, è costretto ad osservarle quando esse si svolgono dinanzi a lui.
Questa è una definizione generale della natura dell’Isolamento, qualche volta chiamata Emancipazione. Le qualità di cui si parla e che si trovano in tutti gli oggetti e che avevano fin qui influenzato e ritardato l’emancipazione dell’anima, hanno cessato di essere considerate come delle realtà e la conseguenza è che l’anima dimora nella sua propria natura, non influenzata dalle grandi "coppie degli opposti" – piacere e dolore, bene e mali, freddo e caldo, e simili. Pertanto, non si deve trarre la conclusione che questa filosofia termini in una negazione, o in una condizione di freddezza, come sembrerebbe implicare la nostra parola "Isolamento". È vero il contrario. Fino a quando questo stato no è raggiunto, l’anima, continuamente influenzata e sviata dagli oggetti, dai sensi, dalla sofferenza e dal piacere, è incapace dipartecipare coscientemente ed universalmente alla grande vita del cosmo. Per compiere ciò, essa deve mantenersi stabilmente "nella propria natura": allora può andare ancor più lontano – come ritiene questa filosofia – allo scopo di condurre alla meta finale le altre anime che lottano ancora lungo la via. Ma, evidentemente, ulteriori Aforismi su questo argomento sarebbero fuori luogo ed incomprensibili, ed assolutamente privi di utilità il darli qui.
Fine del Libro Quarto
Possa Ishwara essere vicino ed aiutare
Coloro che leggono questo libro.
O M
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(1) Come guida generale allo studio ed alla pratica degli Aforismi, si consiglia la lettura dell’Avviamento al Raja Yoga, in Teosofia, Febbraio, Maggio, Agosto, Novembre 1969. (ndt) (2) Stato di Ekagrata. Vedi Libro III, Aforisma 12. (ndt) (3) Vîrya. Cfr. La Voce del Silenzio, III Frammento. (ndt) (4) I tre guna o qualità della natura, sattva, rajas, tamas. (ndt) (5) Cfr "I Tre Piani della Vita Umana", di W. Q. Judge, in Teosofia, maggio 1972. (6) Nell’originale sanscrito queste pratiche sono: Yama, Niyama, Asana, Prânayâma, Pratyahara, Dhâranâ, Dhyâna, Samâdhi, e Yoga per "Concentrazione". (ndt) (7) ‘Svâdhyâya’, "Studio" (âdhyaya) "di sé" (sva), che in questo contesto può essere tradotto "studio per sé", ossia "ripetizione a se stessi" di sacri testi o formule. (Cfr Avviamento al Raja Yoga). (ndt) (8) Vedi Aforima 29 (ndt) (9) Una versione più chiara di questo passo potrebbe essere: "Una tale contemplazione, allorquando si esercita unicamente sul contenuto dell’oggetto come se esso fosse completamente spogliato della propria forma, è detta meditazione." (ndt) (10) William Quan Judge (ndt) (11) Dharma, nel testo. Vedere nota Aforisma 13, Libro III. (ndt) (12) Pùrusha. (ndt)